E
quest’anno fa dieci. Il prossimo sarà il mio undicesimo Esame di Stato da
Presidente. Mi pare esperienza sufficiente per poter dire con cognizione di causa
che potremmo pure smettere, risparmiare le diarie e le trasferte e lasciare che
almeno i dirigenti restino nelle loro scuole a lavorare. Lo sento, il brusio
che l’Esame è un momento simbolico al punto che poi si sogna per tutta la vita.
Vorrà dire che sogneremo qualcos’altro…
Il fatto è che io amo i distinguo,
perché solo distinguendo c’è speranza di capire. A fare di ogni erba un fascio,
non si capisce nulla. È vero che l’Esame di Stato può essere, secondariamente,
svariate cose: rito di passaggio, occasione per feste in famiglia, integrazione
dei guadagni per la commissione, piccolo mercato per i fabbricanti di tesine.
In primo luogo, però, rilascia un titolo con valore legale, appunto perciò è di
Stato. Ma siccome è proprio inadeguato a certificare alcunché, tutto il resto
per me dovrebbe andar giù a cascata, o almeno non gravare sul bilancio dello
Stato e avere come interlocutori possibili i TAR.
Tra
pochissimo inizierà pure l’informazione battente su cosa mangiare e come
dormire e come ripassare e se assumere integratori di fosforo - tutte
preoccupazioni che nascono dall’ansia della prestazione, come se ci fosse un
vero obiettivo da raggiungere.
Ma
l’Esame è una liturgia dall’esito generalmente scontato, mentre capriccioso e
incerto è il punteggio finale, stabilito da commissioni senza alcuno standard
di riferimento.
Dieci
anni così, un nuovo Esame davanti, alcune cose bisognerà che io cominci a
dirle…
Nadia Vidale, Il
tappeto e la polvere, Brevi
osservazioni sull’Esame di Stato, Cleup Editore, 2017.