C'è una persona che
fa collezione di sabbia. Viaggia per il mondo, e quando arriva a una spiaggia
marina, alle rive d'un fiume o d'un lago, a un deserto, a una landa, raccoglie
una manciata d'arena e se la porta con sé. Al ritorno, l'attendono allineati in
lunghi scaffali centinaia di flaconi di vetro entro i quali la fine sabbia
grigia del Balaton, quella bianchissima del Golfo del Siam, quella rossa che il
corso del Gambia deposita giù per il Senegal, dispiegano la loro non vasta
gamma di colori sfumati, rivelano un'uniformità da superficie lunare, pur
attraverso le differenze di granulosità e consistenza, dal ghiaino bianco e
nero del Caspio che sembra ancora inzuppato d'acqua salata, ai minutissimi
sassolini di Maratea, bianchi e neri anch'essi, alla sottile farina bianca
punteggiata di chiocciole viola di Turtle Bay, vicino a Malindi nel Kenia.
In un'esposizione di
collezioni strane che c'è stata di recente a Parigi - collezioni di campani da
mucche, di giochi di tombola, di capsule di bottiglie, di fischietti di
terracotta, di biglietti ferroviari, di trottole, d'involucri di rotoli di
carta igienica, di distintivi collaborazionisti dell'occupazione, di rane
imbalsamate -, la vetrina della collezione di sabbia era la meno appariscente
ma pure la più misteriosa, quella che sembrava aver più cose da dire, pur
attraverso l'opaco silenzio imprigionato nel vetro delle ampolle.
Italo Calvino,
incipit di Collezione di sabbia, Milano
1984.