Foto Intestazione di Alberto Gianfranco Baccelli

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Non insegnate ai bambini, ma coltivate voi stessi il cuore e la mente, stategli sempre vicini, date fiducia all'amore, il resto è niente - Giorgio Gaber

sabato 1 marzo 2014

BUONI MAESTRI – Mariapia Veladiano


Sulla scuola oggi non si può essere troppo ecumenici, bisogna essere di parte, la parte di chi rischia che l'istruzione non sia più un suo diritto, per colpa della crisi, della sciatteria politica, del calcolo astuto di chi sfrutta a fini suoi l'ignoranza altrui. E dovrebbe essere la buona politica a preoccuparsi che questo accada ma non lo fa e allora ci sono i buoni maestri e le buone maestre. In qualche modo eredi di Alberto Manzi che ha reso possibile per molti italiani quel "non è mai troppo tardi", che era il titolo della sua trasmissione più popolare.
A sentirli parlare si capisce cosa li muove. La fiducia nei ragazzi. La certezza che dare fiducia vuol dire mettere in moto un meccanismo di riparazione nelle loro vite deprivate. Credere che sono capaci, possono sottrarsi a un destino che sembra scritto. E questo riparare passa attraverso la relazione. Che può esistere anche se i ragazzi che si hanno davanti sono tanti, l'importante è che ci interessi davvero quel che sono. Poi certo bisogna dare le parole, la cultura che li tenga lontanissimi dal 5 per cento di italiani inchiodati dall'analfabetismo strumentale, cioè che non sanno leggere, e anche dal 33 per cento di italiani afflitti da analfabetismo funzionale, ovvero che non sono in grado di comprendere istruzioni, articoli, discorsi. Questi maestri non si occupano certo solo di stranieri. Fra le nuove povertà c'è la mancanza di tempo e colpisce ovunque. I genitori sono impegnati in lavori che rubano la relazione con i figli e questi sono soli e anche bocciati. Non è facile per la scuola, oggi è accusata di tutto. L'alleanza con la famiglia e la società è sfaldata.
C'è un rischio, che oggi è quasi un destino: quello di dover essere maestri speciali, diversamente maestri rispetto agli insegnanti fannulloni incapaci illicenziabili e quindi impuniti che viaggiano nel pregiudizio della piazza. Ma queste esperienze di maestri diversi sono anche esperienze di socializzazione del problema, come si dice. Nessuna scuola è autosufficiente, neanche se ha tutto quel che le serve e di più. L'autosufficienza è un tarlo tremendo che sbriciola la nostra propensione a sentirci solidali, responsabili nel modo in cui possiamo e sappiamo. Per cui va bene questa disseminazione di esperienze d'aiuto, è l'espressione bella del nostro credere che insieme è meglio sempre, che la scuola, la convivenza sono cose di tutti. E c'è anche la possibilità che da queste esperienze arrivino alla scuola, pervia obliqua, delle idee precise, tipo che se non si libera la scuola dalla burocrazia a favore della relazione non si va da nessuna parte, che i programmi (non ci sono più in senso stretto, ma non è informazione così conosciuta ancora) passano sempre attraverso la curiosità dei ragazzi, che senza la passione, proprio la passione, per la propria disciplina e per i ragazzi, fare l'insegnante è nocivo.
Parlare di scuola vera è sempre una buona cosa perché ancora una volta si scopre che ciò che non appare è quel che più conta, e mentre la narrazione comune di scuola, anche nei libri, insegue perversioni e scandali per vendere forse una copia in più, c'è chi non si permette nessun cinismo passatista e dice che la società può continuare a essere civile attraverso questi ragazzi non più irrigiditi dalla delusione di sé.
La deprivazione culturale è immediatamente un ostacolo alla partecipazione sociale (non si capisce di essere ingannati, non si trovano strade condivise, per contrapporsi bastano poche parole) e politica (si crede ai truffapopoli di quartiere e di stato), allo sviluppo economico (si dipende dal resto del mondo) e alla realizzazione della propria libertà e felicità, perché non possiamo realizzare quel che siamo.
E così essere di parte, quando si parla di scuola, vuol dire essere dalla parte di tutti.
Mariapia Veladiano, Buoni maestri, La Repubblica, 28 febbraio 2014


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