Ma la conquista nella
quale ho impegnato tutto me stesso - la più ardua - è stata quella della
libertà di assentire.
Io volevo lo stato in cui ero; durante gli
anni in cui dipesi dagli altri, la mia sottomissione perdeva il suo contenuto
amaro, e persino indegno, se mi adattavo a considerarla un esercizio utile. Ciò
che avevo, ero stato io a sceglierlo costringendomi soltanto a possederlo
totalmente, e ad assaporarlo quanto più possibile.
I lavori più aridi li
eseguivo agevolmente, solo che mi sforzassi a prenderci gusto. Se un soggetto
mi ripugnava, ne facevo argomento di studio; avevo l'accortezza di ricavarne
motivo di gioia. Di fronte a un caso imprevisto, o disperato, un’imboscata, un
fortunale - una volta prese tutte le misure concernenti gli altri - facevo del
mio meglio per rallegrarmi del caso, per godere dell'imprevisto che mi si
offriva, e l'imboscata o la tempesta s'inserivano senza fatica nei miei
progetti o nei miei sogni.
Persino immerso nella
sciagura più tremenda, ho percepito l'istante in cui lo sfinimento le sottraeva
un poco del suo orrore, in cui la facevo mia
accettando di accettarla.
E in questo modo, con
un misto di riserva e di audacia, di sottomissione e di rivolta ben concertate,
di esigenze estreme e di concessioni prudenti, ho finito per accettare me
stesso.
Marguerite
Yourcenar (1903-1987), Memorie
di Adriano [1951], Milano 1981, p. 42-43.