Ben vengano le divagazioni durante una riunione.
Le chiacchiere sul luogo di lavoro, perfino i pettegolezzi, le confessioni dei
propri problemi ai colleghi alla macchinetta del caffè e le reazioni istintive,
quando qualcuno urta la nostra suscettibilità. Il team perfetto, quello che
all'occorrenza scatta come un sol uomo e che ha una "intelligenza
collettiva" più alta della somma delle intelligenze individuali, non è un
orologio dai meccanismi perfetti. Piuttosto, è un organismo in cui i colleghi
alzano gli occhi dalla scrivania, incrociano quelli del collega che lavora
accanto e si accorgono di cosa gli passa per la testa.
Ci sono voluti decenni di studi sulla sociologia
del "team perfetto" per arrivare a non comprendere tutto questo. Fino
a quando un progetto avviato da Google tra i propri dipendenti non si è accorto
che nessuno degli algoritmi numerici sull'efficienza dei gruppi di lavoro è in
grado di prevedere alcunché. Quello che fa funzionare bene una comunità di
umani, ha concluso, dopo tanto analizzare, il più grande motore di ricerca del
mondo, è in fondo proprio il senso di umanità: empatia, rispetto, consolazione
di un collega se necessario.
Elena Dusi,
“la Repubblica”, 29 febbraio 2016