C'erano questi nuotatori
dell'aria che muovevano braccia e gambe in una lotta già persa con la terra che
li aspettava. Era l'11 settembre 2001 e loro erano i lavoratori dei piani alti
delle Twin Towers: uomini e donne che usando tutta la razionalità che rimaneva
ancora loro sceglievano (accidenti, sceglievano) di fiondarsi giù da una
finestra e morire schiantati con la faccia al suolo piuttosto che bruciare
vivi.
Sceglievano una morte certa a
una che, forse, lo era meno. Sapevano cosa li attendeva parecchie decine di
metri più sotto. Intuivano cosa li aspettava se fossero rimasti chiusi nelle
loro stanze col fuoco che, un minuto dopo l'altro, si mangiava le pareti.
Io quei corpi che nuotavano in
quella vasca fumosa che era il cielo di New York non sono mai riuscita a
dimenticarli. Non riesco a dimenticare la disperazione di chi arriva a
scegliere una morte piuttosto che un'altra. E oggi, cercando di incrociare i
miei occhi con quelli che mi offriva il fotogramma di un ragazzo giordano di
cui fino a un mese fa ignoravo l'esistenza, ho pensato a quei nuotatori che
hanno preferito il vuoto alle fiamme.
Provate, io l'ho appena fatto,
a passare un dito sopra il fuoco di un accendino: un male infame. Basta la
frazione di un secondo per tirare giù il cielo di sacramenti, dal male che fa.
E adesso chiudete gli occhi e
provate a immaginare quel dolore replicato all'infinito. Quel dolore che parte
dai vostri piedi, si arrampica veloce su per i vostri vestiti imbevuti di un
accelerante qualsiasi, che vi avvolge le gambe. Iniziando dalle caviglie si
insinua fino alle cosce e poi su agli organi genitali. Brucia i vostri peli,
uno dopo l'altro ma voi non potete distinguerne la sequenza temporale. Sentite
quel male infame e la puzza che lo accompagna. Se la fortuna (a volerla proprio
chiamare così) vi viene in soccorso i vostri neurorecettori del dolore mandano
tutto a quel paese e vi regalano il sollievo dello stato di shock. Se invece la
vostra soglia di sopportazione del dolore è drammaticamente alta, avrete modo
di sentire il fuoco che vi trapassa la carne, ve la strappa via un lembo dopo
l'altro e continua a salire arrivando alla pancia, alla schiena, al petto, al
collo. Le mani ve le ha già prese: ve le ha prese quasi subito perché quel poco
di istinto di sopravvivenza che vi rimane, dopo avervi fatto piegare sulle
ginocchia, vi spingerà a cercare di fermare il dolore delle fiamme premendo le
mani sulle parti del vostro corpo che bruciano. L'istinto di sopravvivenza si
arrende all'evidenza: le vostre mani sono infuocate. Proverete a rotolarvi a
terra, meglio se sabbiosa, ma quella terra sarà imbevuta di quello stesso
liquido accelerante che avete addosso e così anche l'ultimo tentativo di
sopravvivere al fuoco si spegnerà (solo lui, il fuoco no).
Per tutto il tempo di questa
inconcepibile agonia avrete urlato con una voce sconosciuta: non può certo
essere la vostra voce quel suono belluino che nasce dalle viscere più profonde.
Urla senza lacrime, o se ci saranno, le lacrime saranno quelle provocate dal
fumo che nasce da voi e vi avvolge.
E ora riaprite gli occhi e
pregate che ogni guerra finisca. Che finiscano le rappresaglie
veterotestamentarie che oggi hanno appeso per il collo una donna senza dio,
giustiziata in fretta e furia: per uno dei miei, uno dei tuoi.
Perché se continueremo così a
uno dei miei, uno dei tuoi, un giorno dopo l'altro, potrà arrivare il giorno in
cui a bruciare (a occhi aperti) saremo noi.
Che riposi in pace quel
ragazzo, che riposi in pace la donna uccisa per pareggiare una contabilità
diabolica. Che riposino in pace tutti: perché io non riesco a vedere l'origine
di questo ennesimo male dell'umanità. E non so distribuire colpe o ragioni. So
solo contare i morti.