Una volta, mentre
lavoravo con gli studenti di una scuola-riformatorio per ragazzi nel Wisconsin,
ricevetti una lezione straordinaria. Per due giorni di fila fui colpito al naso
in due modi insolitamente simili.
La prima volta ricevetti
una forte gomitata al naso mentre intervenivo in una lotta tra due studenti. Mi
infuriai così tanto che non potei trattenermi dal restituire il colpo. Per le
strade di Detroit, dove sono cresciuto, ci voleva molto meno che una gomitata
al naso per provocare la mia collera.
Il giorno seguente:
situazione simile, stesso naso (e quindi maggior dolore fisico) ma nemmeno un
po’ di rabbia!
Riflettendo
accuratamente su quella esperienza, la sera stessa, mi resi conto di avere
etichettato mentalmente il primo ragazzino come un “ragazzaccio viziato”.
Questa immagine era già presente nella mia testa prima che mi colpisse al naso
con il gomito e, quando lo fece, non si trattò semplicemente di un gomito che
mi colpiva al naso. Si trattò, invece, di: «Quel ragazzaccio viziato non ha
alcun diritto di fare questo!».
Sul secondo ragazzino
avevo un giudizio diverso; lo vedevo come una “creaturina delicata”. Poiché
tendevo a preoccuparmi di questo ragazzino, non sentii alcuna collera benché il
mio naso dolesse e sanguinasse molto di più il secondo giorno.
Non avrei potuto
ricevere una lezione più potente per rendermi conto che a provocare la mia
rabbia non è ciò che fa l’altra persona, ma sono le immagini e le
interpretazioni che ho nella mia testa.
Marshall B.
Rosenberg, Le parole
sono finestre, Reggio Emilia, 2003, p. 176.