Lo raccolsero da terra, a
sollevarlo pendeva a corpo vuoto. Suo fratello se lo prese in braccio, lo
depose al riparo, lo lavò, gli forzò le labbra con un sorso. Erano chiuse, un
solco arato e secco. L’acqua filtrò seguita da un singhiozzo. Nel suo respiro
l’aria faceva per attrito il raschio di una pialla. Il fratello gli bagnò le
palpebre serrate. L’acqua sciolse la polvere che il vento aveva messo per
coperchio. Mosse gli occhi forzando la fessura, la penombra della tenda aiutò
la schiusa, le pupille erano due pulcini ancora dentro l’uovo. Erano occhi che
non ricordavano niente. Le orbite frugavano intorno, mettevano a fuoco la
faccia del fratello, poi tornavano vuoti. “Chi sono?” disse con un rumore di
gola che mischiava il ringhio al miagolio. Il fratello fece uno scatto indietro
con la testa, per reazione. Poi rispose il nome, il posto, l’ora del tempo e
cosa ci facevano lì. Ascoltò con sforzo, in quel punto la voce umana era per
lui il rumore di un guasto. Ripeté: “Chi sono?”.
Erri De Luca,
E disse (2011), p. 13