Che cosa resta di un
anno scolastico? Ci vuole coraggio per certe domande.
Riassumere in poche
battute quello che accade nel vorticoso spazio di 200 giorni è impossibile.
Basta un anno scolastico perché ogni studente e ogni docente abbia materia
sufficiente per uno o due romanzi.
Scrivere è usare una
rete da pesca: ha la sua paradossale forza nei buchi, che lasciano passare
l'ovvio della vita, e nei nodi, che trattengono ciò che si nasconde e sfugge
sempre. Provo a tirare su le reti: dopo un anno che cosa resta?
Gli eventi ci
impastano e dentro di noi siamo alla ricerca del centro che non siamo disposti
a negoziare con niente e nessuno, il lievito che, nel mutare continuo delle
circostanze, ci permette di dare ampio consenso alla vita senza esserne
vittime. E così a 35 anni, figuriamoci tra i 14 e i 18. Ogni anno è una vita in
miniatura a quell'età, e quei 200 giorni un'esistenza in carne viva come è la
pelle dell'adolescenza, durante la quale il mutamento è la regola e il
rifiutare il mondo il suo corollario. Che cosa posso mai accettare, se non
riesco ad accettare chi sono neanche per un giorno?
Per questo scrivo di
ragazzi nelle mie storie. Il verbo latino adolescere
viene da una radice che indica il «portare a compimento qualcosa» e il
participio passato di questo verbo latino è adultus.
Per diventare adulti bisogna «adolescere» bene. Da adulti poi bisognerebbe
mantenere ciò per cui l'adolescenza è fatta: per che cosa valga la pena
giocarsi la vita futura, senza compromessi, con quella fame di verità, bellezza
e autenticità che è la costante delle centinaia di ragazzi che ho incontrato in
questi anni a diverse latitudini del nostro Paese.
Quando ci decideremo
a rinnovare il paradigma che interpreta le età della vita come compartimenti
stagni da superare e chiudersi alle spalle? Quando cominceremo a raccontare la
vita come continuum in cui le età si
mescolano continuamente e ritornano, soprattutto quando alcune fasi sono state
trascurate? Solo così trasformeremo l'adolescenza da una malattia ad una
possibilità, l'adolescente da oggetto da risolvere a soggetto capace di creare.
Ma questa è un'altra storia.
Che cosa resta di
quest'anno? Voti? Interrogazioni? Compiti? Programmi? Scartoffie? Note? Tutto
questo lo laveranno via le prime settimane di vacanze. Quello che resta è
invece la solita umile, usata, difficilissima arte di vivere: quanto sono
cresciuto nell'amore ai miei colleghi e ai miei studenti?
Purtroppo non ha
memoria la vita se non dell'amore declinato nelle sue molteplici e
quotidianissime forme: quanto tempo dedicato a quella lezione per raccontarla
proprio a quegli studenti, diversi da quelli dell'anno prima? Quanto tempo
trascorso con un collega in cerca di strategie migliori per la loro crescita?
Quanto tempo dedicato al quaderno con una pagina per ogni alunno con su scritti
i punti forti e i punti deboli, per aiutarlo a superare i secondi grazie ai
primi? Quanto tempo speso con ragazzi al di fuori dell'ora di lezione? E quanto
tempo perso a sparlare e demolire? Qualche giorno fa, in un momento di
sconforto burocratico, ho formulato una legge: somma il numero di ore impiegate
a parlare dei e con i ragazzi, sottrai il numero di ore dedicate a compilare
carte e registri. Il risultato, spesso purtroppo negativo, è la scuola
italiana.
E che cosa resterà di
una scuola così? Quelle riunioni, quelle scartoffie? Non credo, nessuno vive e
lavora per queste cose. Resteranno le vite dei ragazzi e le nostre, mutate e
maturate con le loro, per un più pieno compimento nostro e loro. Spesso ho
sentito dire da alcuni colleghi che noi siamo seminatori di dubbi. Io
preferisco dire seminatori di domande. Ma prima dobbiamo trovare il coraggio di
porle a noi stessi: che cosa resta di quest'anno?
Alessandro
D’Avenia,
la Stampa del 14-06-2012